Il purgatorio dell’auto sfasciata
L’essere umano è un animale creativo.
Certo, come tutti gli esseri viventi siamo biologicamente portati alla creazione, chiamati dall’istinto della sopravvivenza della specie.
Mi chiedo spesso, se nasciamo finiti, cosa ce ne frega a noi di quello che succede dopo. Jim Morrison ha detto che avrebbe dato la vita per non morire, ed effettivamente è quello che ha fatto. Ma penso che questa spinta vada ben oltre all’idea di immortalità. Il salmone rischia la vita lungo il percorso di risalita, il maschio della mantide religiosa diventa nutrimento per le uova, muore decapitato. Non si tratta di gloria. Nel grande ciclo della vita, il destino della specie diventa più importante di quello individuale.
Nell’essere umano la spinta creativa è così forte che va oltre all’istinto dell’autoriproduzione, si riconosce in ogni cosa che facciamo, ricerchiamo noi stessi nell’architettura, nell’arte, nei libri, nelle leggi, nelle nostre occupazioni, nella cucina, nelle tappe che ci prefissiamo, nelle parole che utilizziamo, nei vestiti che indossiamo, e dove non riusciamo a creare ci omologhiamo. Ma se la spinta è troppo forte l’omologazione non basta, e la creazione si trasforma in distruzione.

Nasciamo in un mondo prefabbricato dove non c’è più spazio per creare e alcun mezzo per interfacciarci con l'”altro”, se non grandi enormi dosi di competizione, e conseguente inadeguatezza. Se non abbiamo più niente da creare, l’unica soluzione è la distruzione. Chiamati biologicamente e socialmente alla riproduzione, per poi provare grandi sensi di colpa per la nostra stessa esistenza, che non porta altro che conseguenze distruttive al resto del mondo.
Questi i pensieri che mi scorrono nella mente nel ritrovare queste foto fatte qualche anno fa. In uno dei giri per la campagna del nonno, mio zio ci mostra un’auto, “parcheggiata” di fianco al pollaio. Un gruppo di adolescenti a cui è stata prestata la casa per una festa, ha dato il suo meglio nel portare via dal parcheggio del vicino il mezzo, spingendolo per duecento metri, per poi lasciarlo dove è stato ritrovato il giorno successivo, sfasciata.

Ma rivedendo lo “scempio” non provo sconcerto o ribrezzo. Guardo l’auto e ritrovo in me quella esigenza travolgente che mescola la rabbia e l’euforia, libera distruzione creativa.
Probabilmente avevo la loro età, qualche anno prima, quando mi portavo in borsa L’ospite inquietante di Galimberti, affascinata dal discorso intorno alla musica e al ritmo incessante che ci spinge ad ammassarci nelle discoteche, solitari tra la folla, dove nella cadenza del ritmo più primitivo si rivive quella prima esperienza nel ventre della madre, dove il battito del proprio cuore non si distingueva dal battito del cuore materno.

Per raggiungere così quella condizione dove le domande si pongono non in modo teorico, ma corporeo, e con il corpo si chiede qual è l’origine per sapere chi siamo noi, che cos’è il mondo per sapere che cosa ci facciamo, chi è Dio per sapere quale altro Dio si nasconde dietro il racconto che ci hanno fatto. Ed è leggendo queste righe che ho capito, alla fine della mia adolescenza, quali sono le domande che non si sciolgono in una risposta teorica, ma si vivono solo come domande, con tutta la tensione che la domanda conosce quando la risposta non è all’orizzonte, una tensione che il corpo scarica nel ritmo incessante, ripetuto fino allo sfinimento, perché tutte le domande senza risposta sfiniscono.

E mi riconosco ancora, osservando l’auto con i sedili divelti, in questa spinta distruttiva, chiamata dall’angoscia di uno sguardo che non può essere più rivolto al futuro, quando forte nasce da un lato l’insistenza sul presente, ben rappresentato dal battito ritmato dei piedi su questa terribile terra, quando un’altra non è promessa, e dall’altro il bisogno di tornare indietro, al passato anzi a quel primitivo ritmo del corpo che, custodendo la prima origine del tempo, apre la speranza di un altro futuro.
E rivedo di nuovo questi ragazzi, che a mani nude aprono e sfasciano la piccola automobile, strappandone i sedili, rompendone i vetri, piegandone le portiere.
Lì nella campagna, dove il giovane uomo ha sfogato le sue domande senza risposta e le sue paure senza soluzione, non resta che il silenzio di una colpa che non ci appartiene più, abbandonata e nascosta dietro il pollaio, dove la natura silenziosa riprende spazio e possesso.
