La casa dell’arte
L’arte esiste in una sorta di eternità espositiva, e sebbene ci siano “vari periodi”, non c’è il tempo. L’eternità trasforma la galleria in un limbo. Bisogna essere già morti per stare lì. Anche la presenza di quello strano oggetto di arredamento, il corpo dello spettatore, sembra superfluo, un’intrusione. Lo spazio lascia pensare che mentre gli occhi e la mente sono i benvenuti, la presenza dei corpi non lo sia …
Mi si può biasimare se, leggendo le parole di Brian O’Doherty, dal libro Inside the white cube, ho pensato alla Kunsthaus di Bregenz di Peter Zumthor?
Nella sua introspettività, la casa dell’arte è permeabile solo alla luce. Ogni opera ospitata diventa protagonista, come se l’edificio le fosse costruito addosso. Eppure l’opera, così come lo spettatore, è solo di passaggio.

Sono passati degli anni da quando, studentessa di architettura, mi sono approcciata per la prima volta a questo edificio per studiarne gli elementi costruttivi. Devo essere sincera, se nella mia ricerca mi fossi limitata alle immagini reperite in cartaceo o digitale, probabilmente non avrei scelto questo esempio di studio. Mi dava la percezione di un cubo di plastica, appoggiato arbitrariamente in uno spazio vuoto della città. Solo visitandolo mi sono resa conto che non c’è foto che renda giustizia alla percezione diretta, alla relazione tra l’acqua e il vetro, tra il vecchio e il nuovo, tra la natura e l’artificio.

La casa dell’arte si inserisce nella luminosità del lago di Costanza. Il suo corpo è costruito con pannelli di vetro, con acciaio, e di un blocco compatto di calcestruzzo gettato in opera, che all’interno della casa definisce la struttura e lo spazio. Visto dall’esterno l’edificio ha l’effetto di un corpo luminoso. Esso cattura in sè la luce variabile del cielo, la luce pallida del lago, riflette luce e colore e consente di percepire, a seconda della prospettiva, dell’ora del giorno e della situazione atmosferica qualcosa della sua vita interna.
Questa intenzione descrittiva viene confermata da Valeria Tatano nell’introduzione del libro Oltre la trasparenza: edifici come la Kunsthaus a Bregenz di Peter Zumthor sono edifici in cui la trasparenza viene superata per fare spazio all’allusione, per costruirsi come diaframma che non ha bisogno di esibire la realtà animata di ciò che si svolge al suo interno, ma solo di suggerirla.

Presa in un’atmosfera emotivamente ed esteticamente coinvolgente, dover passare all’analisi tecnica mi sembrava allora un po’ come profanare lo spirito d’incanto del luogo. Invece proprio questo approfondimento mi ha permesso di comprendere quanto il dettaglio costruttivo e lo studio dello spazio siano strettamente correlati fra loro. Più si procede nell’analisi di questo edificio e più aumenta la convinzione che ogni parte del progetto sia nata dalla sintesi di un’unica idea.

Lo stesso Zumthor, nel parlare brevemente della propria opera, affianca descrizioni tecniche a caratteristiche di relazione con il contesto, due aspetti che spesso vengono analizzati separatamente.
Questo edificio è diventato così per me il simbolo di un’aspirazione progettuale, non solo architettonica, che non posso fare a meno di invidiare. Infatti l’organicità di quest’opera nega la possibilità di prendere come riferimento solo alcuni suoi aspetti senza snaturarli in quanto intrinsecamente legati al complesso.



Zenza Bronica kodak portra 400
se sembra che questi colori non siano quelli propri del portra, è perché (per fortuna!) non ci si trova spesso a sviluppare una pellicola con gli acidi scarichi
fotografia analogica + postproduzione casalinga = rischiare di trovarsi la pellicola sbiadita
appunto del giorno -> far tesoro degli errori
NOTE SULL’AUTRICE
![]() | sono giulia e mi occupo in prima persona di questa ricerca/blog/webzina/raccoltadiapppunti |